Intervento di Massimo Giuffredi, 1 maggio 2013
Intervengo, nonostante la mia scarsissima propensione umorale e tecnica per i dibattiti in rete, nella discussione apertasi dopo le vicissitudini della mostra 10 volti per la Liberazione. Premetto che esprimerò opinioni del tutto personali, quindi senza cautele e reticenze.
Una prima considerazione credo si imponga: tutto quanto accaduto, furti, danneggiamenti, polemiche, è dipeso dal fatto che per la prima volta da decenni la celebrazione del 25 aprile non si è espressa in rituali e convenzioni (o per lo meno non solo) ma in qualcosa concepita per investire direttamente la città e i suoi spazi, che ha di nuovo preteso presa di posizione, reale rispecchiamento, scelta. Qualcosa che è voluta uscire da stanche chiacchiere buone per (quasi) tutti per manifestare invece un valore civile legato alla data coniugato a un serio e fruibile lavoro storiografico. Hurrà! Era ora! La logora, spesso ipocrita, convenzionalità che ha accompagnato le celebrazioni resistenziali e condizionato la stessa ricerca storica (ma almeno in questo ambito le cose sono per fortuna da tempo radicalmente mutate) ha inferto al senso comune, soprattutto dei giovani, molti più danni dei beceri revisionismi e delle volgarità neofasciste. Quindi quanto accaduto può certo turbare ma anche stimolare, se diventa occasione non per imbarazzi o querimonie ma per rilanciare, affrontando sul piano sia civile che storiografico (e i due piani hanno più nessi di quanto spesso si pensi) i grovigli che i fatti in questione ci pongono. Oportet ut scandala eveniant, lo dice anche il Vangelo e quindi siamo a cavallo.
Il groviglio che a me qui più interessa è il rapporto tra memoria privata, familiare, e memoria pubblica, civile o storiografica che sia. Su questo, seppure nella sostanza concordando, mi viene da essere più radicale di quanto scritto dal Centro studi movimenti. Quando uno entra da protagonista nel palcoscenico della storia, questo suo ruolo pubblico è consegnato alla storia. Dover chiedere il permesso ai parenti (o anche a lui stesso, se ancora vivo) per poterne parlare, per studiarlo o anche per poterne utilizzare le immagini ridurrebbe la storiografia contemporanea (e non solo) a una sorta di storiografia sotto tutela, come la vecchia storiografia di corte, e condizionerebbe anche i legittimi usi pubblici di una figura pubblica. Quando la ragazza Maria Zaccarini entrò nella lotta antifascista, rischiando la vita, assunse, volente o no, un ruolo pubblico, di lotta ma anche di testimonianza, che come tale non può essere privatizzato da nessuno. Si tratta piuttosto di salvaguardare Maria Zaccarini, come qualsiasi altra persona o evento della storia, da silenzi, incrostazioni, deformazioni, e in ciò mi sembra (e lo posso dire con conoscenza di causa perché all’attività del Centro ho collaborato, seppure marginalmente, anch’io) che tutto il lavoro del Centro Studi, in atto ormai da parecchi anni, sia una più che salda garanzia di serietà e rigore, essendosi sempre misurato con spregiudicatezza, senza evitare le difficoltà, con le manipolazioni e i luoghi comuni, ingenui o interessati, che hanno funestato, in questo ha ragione la figlia di Maria Zaccarini, la memoria e la storiografia novecentesca, nel Parmense e non solo. Ha però torto sia nel pretendere l’esclusività della figura materna sia nel polemizzare col Centro Studi, inserendolo tra l’altro, sembrerebbe, tra gli storici dilettanti od opportunisti (sulla accusa di “bassezza” penso sia meglio stendere un velo). La realtà risiede esattamente nel contrario.
Certo, un margine di separazione tra il terreno della memoria pubblica e quello della memoria privata anche per personalità pubbliche esiste, ed è proprio su questo margine incerto che si possono verificare attriti. Non è però il caso di ciò di cui stiamo parlando. Nell’esposizione della figura e nel depliant annesso alla mostra Maria Zaccarini viene rappresentata per quello che ha agito nella storia e per l’esempio che ha rappresentato, non altro. Anzi, nel depliant si accenna con rispetto alle sue amarezze e ritrosie postbelliche, senza ovviamente interferire su questo piano appunto privato. Tuttavia è proprio la signora Formica, la figlia della Zaccarini, ad accennare più volte, cripticamente, nei suoi interventi, a oblio, emarginazione, prevaricazioni, addirittura attentati, subiti da sua madre, in particolare per il suo rifiuto di avallare la presenza di “alcune persone” in “certi eventi” della lotta di Liberazione. Qui siamo forse sul terreno della memoria privata ma, proprio perché è la signora a evocarla per prima, io, e non solo come cultore della materia ma anche come cittadino, vorrei saperne di più. Non per pettegola curiosità bensì perché ritengo che contribuire a sbrogliare la matassa delle spesso dure contrapposizioni personali e di gruppo all’interno stesso dell’esperienza resistenziale, magari finalizzate a costruire mitologie a volte funzionali a qualcosa di non ignobile, a volte semplicemente narcisistiche, sia un contributo importanze alla ricostruzione di una storia generale, che può chiamare in causa anche una memoria custodita come familiare. La signora Formica parli chiaro, dica ciò che ritiene di sapere, esprima il suo punto di vista senza allusioni e senza remore, e sono sicuro che troverà degli storici, se lei avrà la bontà di non ritenerli domenicali, disposti a raccogliere la sua testimonianza, una sua documentazione, se ne ha, confrontarla con altre testimonianze, con altre documentazioni, per farne onestamente storia. Perché, se mi si permette il bisticcio, anche la storia della memoria è storia, e non da poco. Magari per questo ci vorrà un po’ di coraggio, bisognerà spezzare vetuste interdizioni anche interiori, ma sarà, io credo, il modo migliore per la signora Formica di onorare la memoria di quella coraggiosa ragazza che era sua madre, non perseverando nel mantenerla in un rancoroso oblio, nell’emarginazione. Molti anni sono passati, i tempi sono cambiati, è giunto il tempo, anzi la necessità, di parlare liberamente su tutto, e male ha fatto, io penso, chi aveva qualcosa da dire a non averla detta anche prima.
Resterebbe qualcosa da aggiungere su un altro aspetto delle vicissitudini della mostra, che in sé ritengo non abbia alcun nesso con la vicenda Zaccarini, cioè i danneggiamenti subiti da alcune immagini esposte. Su questo c’è poco da indagare, si tratta ovviamente delle solite audaci imprese di teppistelli fascistoidi, forse nemmeno fascisti perché ciò richiederebbe una consapevolezza di sé per loro probabilmente eccessiva. Però una riflessione sul degrado civile di una città che, tra l’entusiasmo generale, tutto ha tollerato, tutto introiettato, tutto ritenuto normale, anche l’ignominia, purché non si toccassero il potere e, quindi, i soldi, andrebbe fatta, prendendo atto, d’altra parte, anche di quel moto di attiva solidarietà che si sta alzando a difesa morale e materiale della mostra. È una riflessione che ha molto a che fare col senso profondo, non rituale, delle celebrazioni di una data come il 25 aprile. Quindi mi sembra davvero di grande intelligenza l’idea avuta dagli organizzatori di non restaurare le figure danneggiate ma di sostituire le parti asportate con specchi, nei quali chi vuole si possa appunto rispecchiare, riconoscere per chi è e per chi vuole essere.
Parma, 1 maggio 2013
Massimo Giuffredi