Centro studi movimenti, 1 maggio 2013
La mostra diffusa 10 volti per la Liberazione è stata inaugurata una settimana fa e già ha fatto molto discutere. Motivo scatenante – è quasi ovvio dirlo – sono stati i diversi atti di vandalismo verso le sagome partigiane, posizionate in alcuni luoghi significativi per la storia della Resistenza a Parma.
Immaginavamo i rischi che una mostra organizzata all’aperto, senza protezione, con installazioni ben visibili in strade e piazze, avrebbe potuto correre. Immaginavamo anche che la scelta dei dieci volti, dei luoghi in cui posizionarli o delle didascalie che li avrebbero accompagnati, avrebbero sollevato discussione, precisazioni e sollecitazioni. Eppure, nonostante tutti questi differenti e possibili problemi, abbiamo tenacemente lavorato al progetto perché crediamo necessario trasmettere la conoscenza di quel passato con un linguaggio fruibile e immediato piuttosto che con la retorica delle orazioni ufficiali, ma anche farlo uscendo dalle stanze ovattate e protette di chi in quella memoria già si riconosce.
Da almeno una ventina d’anni, infatti, la memoria dell’antifascismo e della lotta partigiana è sotto attacco, vittima di un’aggressione molto più sottile e pericolosa rispetto a quella dei decenni precedenti, quando era soprattutto la cultura neofascista ad avversarla. Con la crisi della Prima repubblica e dei partiti democratici che ne governavano il sistema politico, l’offensiva contro l’antifascismo si è fatta, purtroppo, efficace. Al di là della retorica dei discorsi d’occasione, l’antifascismo è stato trattato dall’intera classe dirigente degli ultimi vent’anni come una zavorra del Novecento, un peso del quale disfarsi per avere finalmente un paese “pacificato”, dove tutti quanti – rossi e neri, fascisti e antifascisti – potessero riconoscersi. L’antifascismo, dunque, e con esso la sua memoria pubblica, ha subito una sorta di delegittimazione politica, soprattutto tra le nuove generazioni, quelle appunto cresciute in questo clima disinteressato al passato.
Certo, la classe politica al potere non ha smesso di celebrare il 25 aprile, non ha smesso di utilizzarlo in situazioni specifiche e nemmeno di farne un monumento: ossificato e dunque inservibile. A Parma, addirittura, è stato inaugurato un busto a Guido Picelli in una delle fasi più decadenti sul piano della gestione del potere. Contemporaneamente, si è permessa l’inaugurazione di una lapide ai caduti militari della Repubblica sociale italiana – cioè a coloro che collaborarono con i nazisti nella lotta antipartigiana – e sono state concesse sale del Comune a organizzazioni che si richiamano esplicitamente al fascismo.
Un paradosso che si spiega con il disinteresse per qualsivoglia politica della memoria da parte della classe dirigente degli ultimi vent’anni, tutta proiettata in affari e profitti e nelle dinamiche edonistiche di un “presente permanente”. Un’orgia di ignoranza in cui quella classe dirigente ha trascinato gran parte della società, lasciando a una piccola minoranza la conservazione e la tutela della memoria antifascista. Gli atti di vandalismo alle sagome dei partigiani non si possono spiegare se non a partire da queste considerazioni.
Noi crediamo che non si possa diffondere l’idealità e la memoria dell’antifascismo e della Resistenza solo in determinate occasioni o in determinati luoghi. Abbiamo letto, ad esempio, per opinione di Pino Agnetti, della proposta di fare un museo della Resistenza. Un’idea positiva e utile, certo, ma che non risolverebbe il problema. La politica della memoria – e della memoria antifascista soprattutto, che sta alla base della nostra convivenza democratica – deve, oggi più che mai, scendere con forza nel campo della battaglia delle idee, deve uscire nelle strade della città e riconquistarle, sottraendole alla noncuranza e al disinteresse cui sono state costrette.
Esporre pubblicamente i volti partigiani, dunque, per noi significa indicare le radici di una storia comune; mostrarli senza protezione significa chiamare i singoli cittadini a confrontarsi con la loro vita e la loro scelta e a prendersene cura; raccontarli in modo così diretto e senza mediazioni – se non tramite un piccolo catalogo – significa che la loro storia è storia di noi tutti, non solo degli storici o delle associazioni partigiane, che la scelta di quei partigiani deve vivere in noi e in mezzo a noi.
Parma, 2 maggio 2013
Centro studi movimenti