Identità e alterità nella filosofia del Novecento
a cura di Fabrizio Capoccetti
Quale verità nasconde e al tempo stesso rivela la parola “identità”? In un momento epocale come il presente, in cui le identità – religiose, politiche, etniche – sono al centro dell’attenzione, in una situazione che vede giungere a stretto contatto le più diverse e lontane culture, è opportuno interrogare le voci filosofiche del XX secolo che si sono espresse in merito ad un concetto spesso segno e misura di chiusure ed esclusivismi culturali.
La quarta parte della Fenomenologia dello spirito di Hegel reca il titolo: La verità della certezza di se stesso. Si tratta, in fondo, di essere certi di se stessi, sapere chi si è, o meglio, sentire di essere qualcosa di determinabile e di definibile. Prima ancora, quindi, si tratta di sapere che si è, ovvero essere autocoscienza. L’autocoscienza, però, è tale solo per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto: una lezione che, nel ’900, è stata fatta propria da Sartre, per il quale «l’intuizione geniale di Hegel è di farmi dipendere dall’altro nel mio essere».
Il filosofo francese sottolinea come all’origine del rapporto con l’alterità e della stessa certezza di sé stia l’apparizione d’altri, «lo scandalo della pluralità delle coscienze». Di qui la critica sartriana alla teoria dell’«essere-con» sviluppata da Heidegger, dove la differenza individuale verrebbe eliminata come problema e ingoiata in una dimensione pre-esistente, simile alla «sorda esistenza in comune del vogatore con la sua squadra».
Deleuze ha tentato di mostrare come sia proprio la dialettica ad eliminare, di principio, l’autentica affermazione della differenza, presentandola solo come un fantasma subordinato alla legge dell’identico. Occorre combattere la mediazione, se non si vuole continuare ad incappare in una finta differenza. È necessario pensare la differenza in sé, la differenza senza concetto, ovvero la «ripetizione». Occorre distruggere il feticcio della coscienza ed affermare un pensiero non-dialettico. E che cosa ne è dell’uomo? Non più soggetto, non più individuo, piuttosto ‘dividuo’: una coscienza “fluttuante” – la definisce Foucault – che non interiorizza, ma che porta alla luce l’esteriorità ricoperta dell’inconscio.
Per Sartre la dissoluzione del soggetto apre, invece, ad un soggetto non più metafisico ma non per questo meno ‘individuale’. Proprio dalla lezione hegeliana il pensatore esistenzialista trae gli strumenti per descrivere la coscienza come non-essere: essa non raggiunge mai la completa presenza a se stessa, sfugge continuamente a sé ed è questo movimento a rendere tale una libertà. L’essere umano, in quanto pensiero, è non-essere, e può quindi giocare ad essere chiunque. La differenza non è eliminata, ma spogliata del gioco delle opposizioni: la mediazione resta, ma giunge ad identificarsi con una fluidità non-concettuale; la rappresentazione permette di distinguere il piano dell’essere in sé come qualcosa di irraggiungibile all’uomo, che, proprio in quanto essere per sé, non può che giocare ad essere: un gioco che deve essere preso sul serio.
La quarta parte della Fenomenologia dello spirito di Hegel reca il titolo: La verità della certezza di se stesso. Si tratta, in fondo, di essere certi di se stessi, sapere chi si è, o meglio, sentire di essere qualcosa di determinabile e di definibile. Prima ancora, quindi, si tratta di sapere che si è, ovvero essere autocoscienza. L’autocoscienza, però, è tale solo per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto: una lezione che, nel ’900, è stata fatta propria da Sartre, per il quale «l’intuizione geniale di Hegel è di farmi dipendere dall’altro nel mio essere».
Il filosofo francese sottolinea come all’origine del rapporto con l’alterità e della stessa certezza di sé stia l’apparizione d’altri, «lo scandalo della pluralità delle coscienze». Di qui la critica sartriana alla teoria dell’«essere-con» sviluppata da Heidegger, dove la differenza individuale verrebbe eliminata come problema e ingoiata in una dimensione pre-esistente, simile alla «sorda esistenza in comune del vogatore con la sua squadra».
Deleuze ha tentato di mostrare come sia proprio la dialettica ad eliminare, di principio, l’autentica affermazione della differenza, presentandola solo come un fantasma subordinato alla legge dell’identico. Occorre combattere la mediazione, se non si vuole continuare ad incappare in una finta differenza. È necessario pensare la differenza in sé, la differenza senza concetto, ovvero la «ripetizione». Occorre distruggere il feticcio della coscienza ed affermare un pensiero non-dialettico. E che cosa ne è dell’uomo? Non più soggetto, non più individuo, piuttosto ‘dividuo’: una coscienza “fluttuante” – la definisce Foucault – che non interiorizza, ma che porta alla luce l’esteriorità ricoperta dell’inconscio.
Per Sartre la dissoluzione del soggetto apre, invece, ad un soggetto non più metafisico ma non per questo meno ‘individuale’. Proprio dalla lezione hegeliana il pensatore esistenzialista trae gli strumenti per descrivere la coscienza come non-essere: essa non raggiunge mai la completa presenza a se stessa, sfugge continuamente a sé ed è questo movimento a rendere tale una libertà. L’essere umano, in quanto pensiero, è non-essere, e può quindi giocare ad essere chiunque. La differenza non è eliminata, ma spogliata del gioco delle opposizioni: la mediazione resta, ma giunge ad identificarsi con una fluidità non-concettuale; la rappresentazione permette di distinguere il piano dell’essere in sé come qualcosa di irraggiungibile all’uomo, che, proprio in quanto essere per sé, non può che giocare ad essere: un gioco che deve essere preso sul serio.
Le lezioni affronteranno l’argomento mediante l’analisi di alcuni passi dei più noti testi degli autori considerati.
Il percorso prevede due incontri della durata di due ore ciascuno ed è rivolto alle ultime classi delle scuole secondarie di secondo grado.
TORNA AL MENU’ TRACCE DI FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA