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4. “Gabriella” e “Mirka” 2017-04-18T18:05:49+00:00

“Gabriella” e “Mirka” 

V.lo S. Maria, 6

Questa casa nel cuore dell’Oltretorrente era conosciuta da molti perché vi abitava una famiglia che, come altre, al regime fascista non si era rassegnata, nonostante la vita per gli antifascisti non fosse per nulla semplice.

In questa casa crebbero le sorelle Lina e Laura che impararono presto a cogliere la differenza tra libertà e oppressione, tra uguaglianza e ingiustizia e, quando l’8 settembre 1943 tutto sembrò precipitare, non ebbero difficoltà a comprendere da che parte bisognasse stare: la scelta antifascista, in fondo, l’avevano già maturata tra le pareti domestiche.

Insieme al fratello Primo, entrambe divennero partigiane: “Gabriella” e “Mirka” furono i loro nomi di battaglia. Nei primi tempi, entrambe rimasero in città, a organizzare, a nascondere armi e soldati, a trascrivere e distribuire volantini e stampa clandestina.

Poi però la città non fu più sicura: dall’estate del 1944, a palazzo Rolli si era stanziata la polizia politica tedesca; Mussolini aveva militarizzato il partito fascista e quelli della Brigata nera si comportavano come una polizia vera e propria, arrestando, interrogando, torturando chiunque fosse sospettato di agire contro il governo mussoliniano. E poi avevano spie, informatori, e la famiglia Polizzi era una famiglia nota, “sovversiva”.

“Gabriella” rimase a casa con la madre e il padre ma, il 31 luglio tedeschi e fascisti si presentarono alla porta e deportarono tutti nei lager in Germania. “Mirka” fuggì in montagna, nel Reggiano, dove si unì alle formazioni Garibaldi e divenne vicecommissario di brigata, un ruolo di comando raramente ricoperto da una donna, considerati i tanti pregiudizi che gli stessi partigiani nutrivano verso le donne in armi.

La lotta partigiana costituì un momento decisivo nel processo di emancipazione delle donne, perché indusse un protagonismo femminile del tutto al di fuori ‒ e spesso in antitesi ‒ con i modelli consolidati. Essa spinse molte a uscire di casa, a svolgere azioni a costante rischio della vita e anche, sebbene in casi meno frequenti, a imbracciare il fucile, a indossare pantaloni, a dormire in ambienti promiscui a fianco di compagni maschi.
Per coloro che la vissero, dunque, l’esperienza della Resistenza mise in crisi luoghi comuni, mutò abitudini, liberò coscienze.
L’uscita da schemi consolidati non rappresentò un passaggio facile per nessuna. E soprattutto per le più giovani, cresciute durante il regime, non fu scontato scrollarsi di dosso l’educazione ricevuta da un sistema di propaganda complesso ed articolato quale fu quello fascista.
Alle donne che, ciò nonostante, fecero la scelta della Resistenza, vennero dapprima affidati generici compiti di assistenza: raccogliere abiti da inviare in montagna, generi alimentari, medicinali, sigarette, armi.
Poi molte si occuparono della propaganda, per sensibilizzare l’opinione pubblica ‒ soprattutto femminile ‒ a sostegno della lotta clandestina: le donne, infatti, avevano più possibilità di muoversi senza destare sospetti. E così, anche a Parma, furono soprattutto loro ad aggirarsi tra negozi, barberie e sartorie con bigliettini o documenti falsi nascosti nel reggiseno o in borse col doppiofondo, a ospitare in casa soldati sbandati, a nascondere armi e pacchi di volantini o a pedalare senza sosta tra la città e la montagna.
Quella della staffetta fu una mansione indispensabile al movimento partigiano soprattutto da quando, con il crescente aumento degli uomini in armi, fu necessaria una struttura organica, capace di coordinare in maniera efficiente le varie formazioni. In sella a una bicicletta, le donne furono spesso l’unico tessuto connettivo tra le brigate, garanzia di collegamento in una situazione in cui le comunicazioni erano difficili, quando non impossibili.
Per lungo tempo, il loro pedalare su e giù dalle montagne alla città e viceversa è stato considerato il più importante “contributo” femminile alla Resistenza. Come a dire: gli uomini hanno fatto la guerra e la storia, le donne hanno contribuito, con quella funzione ancillare di cura che meglio si confaceva alla loro natura.
Benché nella memoria collettiva questo ruolo di assistenza e supporto sia rimasto di gran lunga prevalente, anche nel Parmense non mancarono donne che presero la via dei monti e imbracciarono le armi. Si trattò certo di piccole minoranze, circoscritte a coloro che, compromesse in città, si univano alle formazioni partigiane dove, non di rado, potevano contare sull’appoggio di qualche congiunto.
Anche in montagna, tuttavia, esse vennero spesso confinate a ruoli di cura, al compito di badare alla sopravvivenza quotidiana della squadra, di gestire i rapporti con le popolazioni locali, di accudire i maschi alle prese con la guerriglia. Per essere considerate combattenti al pari loro, molte donne dovettero lottare e imporsi anche con i propri compagni, conquistarsi una fiducia non concessa a priori, dimostrare di esserne all’altezza.
Del resto, anche gli uomini che animarono la Resistenza erano cresciuti in una società che prevedeva rigide differenze tra i sessi, nella quale i maschi potevano studiare materie scientifiche o l’arte della guerra e alle femmine toccavano i “lavori donneschi”. Fu molto difficile per tutti, dunque, sradicare stereotipi e pregiudizi e diciotto mesi di lotta armata, sebbene dirompenti, non furono certamente sufficienti.
Ciò nonostante, alcune donne, come Laura Seghettini o Laura Polizzi seppero vincere ogni diffidenza e svolsero ruoli direttivi importanti all’interno delle loro brigate.
Molte delle donne che presero parte alla lotta partigiana provenivano da famiglie antifasciste, essendo stata la famiglia, durante il regime, l’unico canale di formazione politica. Anche a Parma, oltre a Lina e Laura Polizzi, tra le prime a compiere la loro scelta furono giovani come Jole Benna, Maria Bocchi, Cecilia Soncini, Maria Zaccarini: tutte provenienti da solide radici antifasciste.
In altre, invece, fu l’emergenza della guerra a far affiorare un più forte senso di sé e del proprio ruolo sociale e politico e a spingerle ad aderire alla Resistenza sulla scia delle più diverse motivazioni.
Per alcune pesò la volontà di pace, la frequentazione, a scuola o al lavoro, di antifascisti; per altre fu prevalente il desiderio di riscatto di classe, di giustizia sociale, di reazione alla violenza e alla sopraffazione.
A prescindere dalle cause della scelta, tutte passarono da un generico sentimento di opposizione a una consapevolezza più definita, a una crescita intellettuale e ideologica che diede loro una chiarezza maggiore sui modi e le forme che il nuovo mondo dopo la guerra avrebbe dovuto assumere. E, in esso, sul ruolo che le donne avrebbero dovuto ricoprirvi.
La maggior parte delle donne che compirono scelte, armate o meno, di Resistenza furono giovani, perché non ancora imbrigliate in ruoli o compiti famigliari ben definiti, e non ancora madri o mogli. Giovani cresciute durante il regime e dunque educate da una molteplicità di messaggi, spesso contraddittori: quelli ricevuti dalla famiglia ‒ talvolta antifascista o più spesso afascista ‒ e quelli impartiti dalla scuola e dalle organizzazioni giovanili del regime. Giovani che da un lato subivano il fascino dei nuovi stili di vita e dei nuovi modelli femminili veicolati, tra anni Trenta e Quaranta, da cinema, moda e giornali femminili; e che dall’altro rimanevano condannate alla subalternità all’autorità maschile e al modello di donna dominante nella propaganda fascista: l’angelo del focolare, la “fattrice di figli”, la “genitrice della razza”.
La scelta femminile di unirsi alla Resistenza fu dunque una scelta molto più libera di quella maschile, anche perché non obbligata da alcun bando di arruolamento. Fu quindi molto più trasgressiva, perché comportò un atto di disobbedienza non solo alle leggi in vigore ma anche alle regole dell’appartenenza di genere e ai comportamenti riconosciuti leciti o illeciti per il mondo femminile.
Una scelta che portò molte di loro, nel dopoguerra, a impegnarsi attivamente perché anche alle donne fosse riconosciuto spazio e dignità nella politica italiana.
  • Centro studi movimenti (a cura di), Una stagione di fuoco. Fascismo Guerra Resistenza nel Parmense, Fedelo’s, Parma 2015.
  • Dianella Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza Politica, Storie di donne, Aliberti, Reggio Emilia 2006.
  • Marina Addis Saba, Partigiane. Tutte le donne della resistenza, Mursia, Milano 1998.
  • Anna Bravo, Anna Maria Buzzone, In guerra senz’armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995.
  • Marco Minardi, Ragazze dei borghi in tempo di guerra: storie di operaie e di antifasciste dei quartieri popolari di Parma, Edizioni dell’Istituto storico della resistenza, Parma 1991.
  • Franca Pieroni Bortolotti (a cura di), Le donne nella Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna. 1943-1945, Vangelista, Milano 1978.
  • La donna nella Resistenza, film documentario, regia di Liliana Cavani, Italia 1965.
  • Storia di Mirka, film documentario, regia di Primo Giroldini, Italia 2012.