ONMI
L’Opera nazionale maternità e infanzia
Via Costituente, 4b
Dai primi anni Quaranta, in questo edificio trovò sede la “Casa della madre e del fanciullo. Gestita dalla federazione locale dell’Opera nazionale maternità e infanzia (Onmi), fu uno degli enti assistenziali con cui il fascismo penetrò nella vita privata delle donne italiane, condizionandone le scelte più intime e personali e imponendo loro un modello di femminilità omologante.
Obiettivo dichiarato dell’Onmi ‒ istituita nel 1925 ‒ era favorire le nascite a sostegno della politica demografica che il regime avrebbe promosso di lì a poco, nella convinzione mussoliniana che il «numero» fosse «potenza» e in vista dei suoi progetti imperialisti. Solo a questo scopo, e non come diritto sociale, diveniva necessario ridurre la mortalità infantile e migliorare la salute e le condizioni di vita di gestanti e madri in allattamento.
Per questo l’Onmi doveva occuparsi di fornire alle donne bisognose assistenza medica durante la gravidanza e nei primi mesi dopo il parto, insegnare loro i «moderni metodi della puericultura», procurare corredini per neonati e latte in polvere, assistere i bambini in età prescolare.
Il regime lo presentava come un ente di assistenza moderno, che differiva di gran lunga dalle istituzioni benefiche di antico regime: se queste si erano fondate solo sull’obbligo morale dei più ricchi verso i poveri, secondo la propaganda fascista l’Onmi offriva sostegno per finalità di interesse collettivo. Implicita, in questa argomentazione, era dunque l’idea che la maternità, per le donne, fosse un dovere verso lo Stato e la nazione.
In questo contesto, dal 1933, all’Onmi fu affidato anche il compito di organizzare la “Giornata della madre e del fanciullo”, che veniva celebrata ogni anno il 24 dicembre, durante la quale le madri più prolifiche d’Italia ricevevano pubblicamente l’encomio di Mussolini.
Sul piano della crescita demografica o del miglioramento della vita dei bambini abbandonati, l’Onmi raggiunse deludenti risultati. Tuttavia essa fu un efficacissimo mezzo di propaganda: tramite la sua fitta rete di collaboratrici che frequentavano le case delle italiane e prestavano loro assistenza, il fascismo consolidò la concezione della maternità come compito primario di ogni donna.
La costituzione dell’Onmi fu intimamente legata al lancio, a partire dal 1927, della politica demografica fascista. Mussolini era ossessionato dai numeri e, nella convinzione che la potenza si coniugasse con la quantità, fissò, come obiettivo per il paese, un incremento di 20 milioni di abitanti da raggiungere entro qualche decennio.
«L’Italia ‒ disse nel discorso dell’Ascensione del maggio di quell’anno ‒ per contare qualche cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo, con una popolazione non inferiore ai sessanta milioni di abitanti. […] Se si diminuisce, signori, non si fa l’impero, si diventa una colonia».
Il regime iniziò dunque a riservare alle donne italiane un compito preciso: partorire figli, i futuri soldati della nazione. E, sempre più spesso, sia Mussolini che altri uomini del regime presero a rivolgersi al mondo femminile usando termini come «fattrici di figli», «genitrici della razza», «macchine di riproduzione». La propaganda cominciò a esaltare le buone madri contro la «corruzione della donna moderna» e, insieme al ruolo che le donne avrebbero dovuto ricoprire nella società, il regime chiarì via via anche quale aspetto dovessero avere e come dovessero gestire il proprio corpo.
La maternità venne ridotta all’atto fisico di produrre bambini e la funzione procreativa delle donne finì per condizionare ogni aspetto del loro essere sociale: escluse dalla politica, ogni loro partecipazione alla sfera pubblica (volontariato, impegno nella cultura, diritti sul lavoro…) venne subordinata al dovere principale di dare figli alla nazione.
Perché ciò avvenisse, il regime mise in campo una serie di misure che si articolavano su tre piani differenti: la repressione, la propaganda e i programmi assistenziali. Da un lato, cioè, vietò con pene severe il controllo delle nascite, la diffusione di sistemi anticoncezionali e l’aborto (che venne considerato un crimine contro la nazione e dunque ancora più rigidamente punito); dall’altro promosse politiche maternaliste ad ampio raggio, declinate in assegni familiari, assicurazioni di maternità, prestiti per matrimoni e nascite, assistenza sanitaria e sociale a madri e infanti.
Se, nel lungo periodo, le norme assistenziali per la maternità che il regime mise in campo, anche tramite l’Onmi, miravano all’incremento demografico, nel breve si rivelarono un eccezionale strumento di consolidamento e normalizzazione del regime. Furono infatti un’arma efficacissima per la restaurazione dell’ordine nei rapporti tra i sessi, sconvolto dal primo conflitto mondiale, e contro l’emancipazione femminile, dal momento che non miravano ad arrecare benefici alle donne in quanto tali, quanto ad assisterle solo nel compimento del loro dovere di far figli.
Il destino delle donne divenne quello di essere madri, il cui successo si misurava nel numero delle nascite: le madri prolifiche e le famiglie numerose venivano fotografate ed esaltate sui giornali, quali esempi per le altre donne. Il pubblico riconoscimento, quindi, divenne la ricompensa per la procreazione e per il servizio reso alla nazione.
Il 24 dicembre 1933, inoltre, Mussolini istituì la Giornata della madre e del fanciullo: ogni anno, alla vigilia di Natale, le 93 madri più prolifiche d’Italia venivano ricevute dal “duce”, passate in rassegna come le “migliori esemplari” della “razza” e premiate con una somma di denaro.
L’Onmi, quindi, fu uno dei tanti mezzi con cui il regime esercitò il proprio potere sulla vita e sul corpo delle donne italiane. Essa svolse un ruolo centrale anche nella medicalizzazione del parto. Nei primi decenni del Novecento, la gran parte delle nascite avvenivano ancora in casa e le partorienti erano assistite dalla levatrice.
Era, questa, una figura molto importante, perché detentrice di saperi antichi ed essenziali per assistere le donne nel generare la vita. Proprio per questo, ricopriva un ruolo rilevante anche nella vita sociale di tanti villaggi dell’Italia rurale: in molte zone del paese, , ad esempio, era la levatrice ad introdurre il neonato nella società pubblica, ad accompagnarlo nella processione battesimale, a iniziarlo alla vita sociale.
Con il parto in clinica, questa figura si ritrovò via via subordinata alle gerarchie maschili detentrici dei dettami della nuova scienza medica. Il suo ruolo sociale fu quindi sempre più marginalizzato mentre il mestiere subì un processo di professionalizzazione, reso evidente anche dal nuovo e più scientifico nome ‒ “ostetrica” ‒ che dal 1937 sostituì l’antiquato “levatrice”.
Con tutto ciò, un millenario patrimonio di saperi femminili cominciò a perdersi nelle corsie degli ospedali, dove alle ostetriche non rimase altro che assistere i medici maschi, non potendo eseguire quei trattamenti che essi praticavano sempre più frequentemente, come l’uso del forcipe, l’episiotomia o la somministrazione dei farmaci.
I poteri e i saperi di un’antichissima “professione” finirono dunque per affievolirsi nella gerarchia della medicina dominata dagli uomini, mentre lo specializzarsi delle discipline mediche, come la ginecologia e la pediatria, privarono ulteriormente le donne di autonomia nella gestione del proprio corpo, per la quale divenne sempre più centrale il parere dei nuovi esperti in materia di procreazione.
L’offerta dei servizi dell’Onmi, insomma, fu sempre segnata da un chiaro pregiudizio ideologico contro le donne e dall’arbitrarietà del potere maschile. Maschi erano a capo dei servizi assistenziali, maschi erano coloro che prendevano le decisioni e il benessere della madre fu presto subordinato a quello del neonato.
- Maria Morello, Donna, moglie e madre prolifica. L’Onmi in cinquant’anni di storia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010.
- Silvia Salvatici, Contadine dell’Italia fascista: presenze, ruoli, immagini, Rosenberg & Sellier, Torino 1999.
- Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993.
- Marina Addis Saba (a cura di), La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio fascista, Vallecchi, Firenze 1988.
- Elisabetta Mondello, La nuova italiana. La donna nella stampa e nella cultura del Ventennio, Editori riuniti, Roma 1987.
- Maria Antonietta Macciocchi, La donna nera. Consenso femminile e fascismo, Feltrinelli, Milano 1976.