Le bustaie
B.go Tommasini, 35
Fino agli anni Venti del Novecento, in questo palazzo ebbe sede la fabbrica di busti da donna di Italo Moraschi che impiegava diverse decine di operaie. Già nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento, a Parma si contavano numerosi bustifici che costituivano uno dei settori industriali più fiorenti della città.
Non deve stupire la collocazione di uno stabilimento in pieno centro: a quell’epoca, infatti, non solo Parma era ancora segnata da un lento sviluppo industriale, ma gran parte delle manifatture aveva sede in qualche stanza al piano terreno di palazzi signorili, spesso residenza del padrone stesso che, in questo modo, aveva un diretto controllo sul lavoro delle operaie. Anche in questo caso, ad esempio, il signor Moraschi viveva all’ultimo piano dello stesso edificio.
La manodopera prevalente in questo tipo di fabbriche era femminile: si trattava generalmente di donne che provenivano dai borghi popolari dell’Oltretorrente, molto giovani, per lo più tra i 16 e i 21 anni, che pur costrette al lavoro in ambienti malsani per gran parte della giornata, ricevevano paghe molto inferiori a quelle maschili.
L’orario di lavoro era massacrante: da un minimo di 11 ore a un massimo di 17 e la paga era retribuita a cottimo, cioè in proporzione alla quantità di busti prodotti a giornata. Per poter sopravvivere, dunque, molte donne si sottoponevano a turni di lavoro estenuanti. Come se ciò non bastasse, a fine giornata le bustaie dovevano occuparsi della pulizia del macchinario e provvedere alle spese di manutenzione. Esse, inoltre, dovevano sottostare a duri regolamenti, pagando multe per ritardi, assenze o qualche parola scambiata durante il lavoro e, nel caso di malattie prolungate, venivano generalmente licenziate.
Il lavoro interno ai bustifici era suddiviso in settori: non era una singola operaia che iniziava e finiva il prodotto, ma ognuna aveva una sua mansione: cucitrice, mollista, filettatrice, ricamatrice, imbustatrice, occhiellatrice e così via. Alcune operaie, poi, si occupavano del taglio, altre della stiratura, altre ancora del confezionamento dei busti. L’intero ciclo di lavoro era sottoposto al rigido controllo delle “maestre” che, sostanzialmente, svolgevano la funzione di caposettore e che non sempre erano ben accette alle bustaie. Proprio da una protesta per la sostituzione di una maestra, ad esempio, ebbe inizio uno dei primi scioperi delle lavoratrici parmensi.
Nel 1892, alla fabbrica Mantovani e Crispo – una delle più grandi della città, con 150 lavoranti ‒ la maestra di una delle due sezioni venne licenziata per malattia e sostituita. La nuova maestra, però, non era gradita alle altre operaie che vissero quel licenziamento come l’ennesimo sopruso che, giornalmente, erano costrette a patire. E così, il 2 luglio, incrociarono le braccia e per 4 giorni si rifiutarono di lavorare. Una decisione straordinaria in un’epoca in cui astenersi dal lavoro per protesta non era pratica diffusa tra i lavoratori che, il più delle volte, subivano le prepotenze di padroni e datori di lavoro senza poter rivendicare nulla.
La protesta delle bustaie, in realtà, non sortì nessun effetto, se non il licenziamento di otto operaie ritenute «provocatrici» dello sciopero, come riferì il prefetto al ministero dell’Interno comunicando la fine della protesta.
E tuttavia, nonostante la sconfitta, questo fu il primo esempio di lotta operaia al femminile: all’epoca, infatti, a Parma non esistevano organizzazioni per le rivendicazioni delle lavoratrici, cui ancora nessuno riconosceva diritti politici, sociali o economici. Solo nel 1895 venne fondata la prima Società bustaia di mutuo soccorso con lo scopo di migliorare anche le loro condizioni di lavoro.
Poi, nel 1901, nacque la lega delle bustaie e, anche se in pochi mesi furono più di 300 le operaie iscritte, suo segretario rimase a lungo un uomo ‒ Luigi Fochi ‒, dal momento che alle popolane era per lo più preclusa la possibilità di studiare e dunque di formarsi una cultura politica e sindacale.
Ciò nonostante, anche nella storia delle lotte operaie parmensi non mancarono momenti di assoluto protagonismo femminile, come in occasione dei tanti tumulti legati al costo del pane e della farina che, nella seconda metà dell’Ottocento, scompigliarono più volte la vita cittadina.
È pur vero, però, che all’inizio del Novecento – qui come in altre parti d’Europa –, questo tipo di proteste assunse via via altre forme, cominciando ad articolarsi in scioperi, assemblee e agitazioni organizzate, e a manifestarsi sempre più frequentemente in lotte per i salari piuttosto che in dimostrazioni per il cibo. E dei nuovi scioperi raramente furono protagoniste le donne, mentre impegno dei funzionari sindacali divenne quello di moderare e incanalare anche «gli eccessi emotivi femminili» entro la logica delle nuove strutture politiche.
Per molti, moltissimi anni, dunque, leghe e organizzazioni femminili ebbero uomini alla loro guida, come racconta la fotografia che ritrae Alceste De Ambris ‒ segretario della Camera del Lavoro di Parma dal 1907 ‒ circondato da circa 500 bustaie.
L’occasione di quell’immagine fu una riunione con le operaie in vista di un altro sciopero che, nell’estate del 1907, coinvolse le lavoratrici dei quattro bustifici più grandi della città, tra cui quello di Italo Moraschi.
Questa volta, le richieste delle bustaie riguardavano aumenti salariali, un maggior rispetto dell’igiene in fabbrica e l’istituzione ‒ con i soldi delle multe con cui venivano punite ‒ di un fondo in favore delle operaie ammalate.
Nel memoriale che in luglio De Ambris inviò ai titolari delle quattro ditte ‒ fratelli Mantovani, Mantovani e Crispo, Bortolini e Moraschi ‒ si chiedevano anche altri miglioramenti: portare a 8 ore la giornata di lavoro, retribuire maggiormente il lavoro straordinario, trasformare il cottimo in un salario a giornata e stabilire una tariffa unica per tutte le fabbriche di busti della città. Non da ultimo, poi, si chiedeva il riconoscimento della Lega iscritta alla Camera del Lavoro ‒ come rappresentante degli interessi di tutte le bustaie ‒ e che non ci fossero rimostranze o rappresaglie in seguito all’agitazione.
Non appena ricevuto il memoriale, gli imprenditori rigettarono gran parte delle richieste e sottoscrissero un patto col quale si impegnavano a non prendere decisioni autonome, senza il consenso degli altri.
Il 28 luglio, dunque, le bustaie diedero inizio allo sciopero che durò per circa 50 giorni, fino al 16 settembre. La battaglia fu lunga e dura: quasi due mesi senza salario per una popolana dell’Oltretorrente significava la fame, viste le già precarie condizioni in cui molte di loro vivevano e vista la disoccupazione endemica che, stagionalmente, incrudeliva l’esistenza del popolo dei borghi.
Anche per questo, intorno alla loro lotta si strinse presto la solidarietà di altri lavoratori che, proprio in quegli anni, iniziavano a legarsi in forme di mutuo aiuto indispensabili a qualsiasi battaglia. Ogni settimana «L’Idea» (a quell’epoca giornale della Federazione socialista e della Camera del Lavoro) pubblicava la lista delle sottoscrizioni raccolte: lunghi elenchi di leghe e di società mutue ma anche di singoli uomini e donne che avevano versato poche lire a favore di quelle donne combattive e delle loro sacrosante rivendicazioni.
Alla fine le bustaie ottennero qualche miglioramento salariale ma la richiesta che più stava a cuore alla loro lotta – la sostituzione del lavoro a cottimo con il salario a giornata – rimase inascoltata.
Quasi due mesi di sciopero, tuttavia, radicarono in molte di loro una nuova coscienza, quella della forza della solidarietà.
- Margherita Becchetti, Fuochi oltre il ponte. Rivolte e conflitti sociali a Parma 1868-1915, DeriveApprodi, Roma 2013.
- Serena Lenzotti, Roberto Spocci, Se ben che siamo donne… La lega delle bustaie e lo sciopero del 1907, Camera del Lavoro di Parma e Provincia, Parma 2007.
- Michelle Perrot, George Duby (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Dal Rinascimento all’età moderna, vol. 3, a cura di N. Zemon Davis e A. Farge, Laterza, Roma-Bari 1991.
- Louise A. Tilly, Diritto al cibo, carestia e conflitto, in R. I. Rotberg e T. K. Rabba (a cura di), La fame nella storia, Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 143-159.
- AA.VV., La storia senza qualità, Essedue Edizioni, Verona 1981.