Sovversive
B.go Marodolo, 1
In questi borghi popolari d’Oltretorrente vissero molte delle donne che, durante il regime fascista, finirono per essere coinvolte nella rete di sorveglianza poliziesca, schedate e bollate come “sovversive” dalle autorità di Pubblica sicurezza.
In borgo Marodolo, ad esempio, viveva Alice Cesena, condannata dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato nel 1931 con l’accusa di aver confezionato bandiere rosse; viveva Rosa Pianforini, moglie del «noto comunista» Dante Gorreri, condannato al confino di polizia; viveva Ada Nicolini, nella cui casa, nell’ottobre 1922, la polizia ritrovò un entusiastico volantino che raccontava di come anche le donne comuniste del quartiere, finalmente, si fossero costituite in gruppo politico organizzato. In tutti i borghi, poi, abitavano molte altre donne che, nonostante le difficoltà, per venti lunghi anni si mantennero irriducibilmente ostili alla dittatura mussoliniana, pagando anche a caro prezzo la scelta antifascista. Vivere con lo stigma della sovversiva, infatti, non era facile per una popolana: non rassegnarsi al regime significava non solo povertà, fatica a trovare anche la più misera occupazione ma, spesso, anche dover provvedere da sole al mantenimento dei figli nel caso – molto frequente – in cui i compagni fossero condannati a pene detentive.
Galera o confino di polizia erano punizioni riservate per lo più agli uomini; per le donne, invece, le pene erano meno severe perché, sebbene attentamente sorvegliate dalla polizia, in genere non erano considerate in grado di esercitare una capacità criminale autonoma. Ritenendole psichicamente più deboli e maggiormente suggestionabili, le autorità di Pubblica sicurezza le reputavano meno responsabili e dunque meno pericolose: anche se colte in flagranza di reato, era stato certamente un uomo a spingerle a “delinquere”.
Nei giudizi degli agenti di polizia, poi, si rifletteva la mentalità diffusa tra la maggioranza degli uomini, indipendentemente dall’orientamento politico: se una donna non era legalmente sposata finiva per essere considerata di «facili costumi» o di contegno «allegro». Oppure veniva indicata come «concubina» o «amante di». Avere figli al di fuori del matrimonio, non essere stabilmente legata a un compagno, mostrare segni di emancipazione nel proprio stile di vita, non corrispondere, insomma, al modello di donna “angelo del focolare” propagandato dal regime, rendeva queste donne, agli occhi della polizia, moralmente corrotte di per sé, e dunque da mantenere sotto stretta sorveglianza.
- Margherita Becchetti, Fuochi oltre il ponte. Rivolte e conflitti sociali a Parma 1868-1915, DeriveApprodi, Roma 2013.
- Massimo Giuffredi (a cura di), Nella rete del regime. Gli antifascisti parmensi nelle carte di polizia (1922-1943), Carocci, Roma 2004.
- Patrizia Gabrielli, Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista, Carocci, Roma 1999.
- Giovanni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1995.