Unione donne italiane
Via Petrarca, 15
Dal giugno 1945, in questo edificio ebbe sede l’Unione donne italiane (Udi), associazione che, nell’immediato dopoguerra, raccolse l’entusiasmo di molte donne uscite dalla lotta partigiana, impazienti di entrare a pieno titolo nella vita politica del paese.
Molte erano animate da un fermo rifiuto di tornare a rivestire il ruolo che il fascismo aveva assegnato al mondo femminile ‒ quello di angeli del focolare e mogli e madri esemplari ‒ e non erano più disposte a rassegnarsi all’interno delle mura domestiche. Rivendicavano anzi con forza l’assoluta parità con l’uomo, reclamavano responsabilità sul lavoro, la parificazione salariale e difendevano il diritto di voto appena ottenuto.
Ad infondere vigore a queste nuove istanze di emancipazione era stata la guerra, con il massiccio reclutamento di donne nel mondo del lavoro, con le drammatiche condizioni di vita quotidiane cui molte dovettero far fronte, con l’esperienza ‒ sebbene per una minoranza di esse ‒ della Resistenza e dell’attività clandestina.
Tutto ciò rese, nella coscienza di migliaia di donne, superati e soffocanti il matrimonio e la maternità come uniche prospettive della realizzazione femminile.
Terreno di impegno dell’Udi fin dall’inizio fu quello economico. La lunga pratica dell’amministrazione domestica aveva reso le donne sicure e a proprio agio ‒ più di quanto non lo si sentissero nella discussione teorica e nel confronto ideologico ‒ nella soluzione di problemi concreti quali il blocco dei prezzi dei generi di prima necessità, la battaglia contro il mercato nero, l’adeguamento dei salari al costo della vita, l’aumento delle razioni alimentari e la battaglia contro la disoccupazione.
E nell’Italia devastata dalla guerra, su questo programma di rivendicazioni fu piuttosto semplice mobilitare migliaia di donne che, iscritte o non iscritte, in quel primo dopoguerra partecipavano in massa a scioperi o dimostrazioni.
L’Udi nazionale era stata fondata a Roma nel 1944, e la sezione locale, in linea di massima, ne seguiva le direttive. In un primo tempo vi aderirono donne di tutti gli schieramenti politici antifascisti, dalle cattoliche alle comuniste, dalle socialiste alle repubblicane, azioniste e liberali, nel desiderio di mantenere in vita quel clima di collaborazione e solidarietà che anche la loro presenza aveva contribuito a garantire nella lotta clandestina.
Ciò nonostante, nell’Udi ebbe sempre un ruolo preponderante il Partito comunista italiano, più forte numericamente e, tra i diversi partiti del dopoguerra, senza dubbio quello più convinto della necessità di coinvolgere le donne nella sfera politica e produttiva.
La discussione interna all’associazione, dunque, non verteva su questioni ideologiche quanto su altre ritenute più urgenti, quali l’emancipazione femminile, il riconoscimento alle donne dei pieni diritti politici, la loro preparazione perché a esse fosse consentito agire e incidere direttamente nel corso delle cose e degli eventi.
Con questa impostazione, l’Udi guadagnò presto anche in città molti consensi: alla fine del maggio 1945 le tesserate erano circa 1.200 e ad agosto già 5.000.
Presto, tuttavia, le tensioni della guerra fredda che si profilavano all’orizzonte si riverberarono anche sull’organizzazione e, all’inizio dell’estate, le donne cattoliche la abbandonarono ufficialmente, dando vita ad una sezione parmense del Centro italiano femminile (Cif), emanazione dell’Azione cattolica.
Con ciò sfumò il progetto di realizzare un’associazione di massa femminile, espressione di tutte le donne italiane e l’Udi finì per assumere sempre più la fisionomia di organismo rappresentativo delle forze femminili di sinistra, contrapposte a quelle cattoliche.
Anche l’originaria impostazione interclassista venne scemando, lasciando nell’Udi un’impronta marcatamente popolare. Gran parte delle tesserate erano contadine della Bassa e delle zone pre-collinari o operaie della città, massaie e, in misura minore, impiegate e piccole artigiane. Scarse, invece, le donne della borghesia medio alta e le intellettuali.
L’attività dell’associazione veniva raccontata tramite un’edizione locale del periodico nazionale «Noi donne» che ‒ uscito per la prima volta in Francia nel 1937 tra gli esuli antifascisti per iniziativa di Teresa Noce ‒ nel 1943 era diventato il portavoce dei Gruppi di difesa della donna, l’organizzazione femminile sorta negli anni della Resistenza.
Redattrici ne erano giovani e giovanissime donne appena scese dai monti, le stesse che componevano il comitato direttivo dell’Udi parmense: Bianca Pagani, repubblicana, era incaricata della stampa, la socialista Cecilia Soncini dell’apparato assistenziale e la comunista Anna Menoni, segretaria dell’associazione, la rappresentava all’interno del Cln provinciale. Tutte loro, come molte altre attiviste, erano state partigiane.
Nel giro di pochi mesi, lo slancio emancipazionista iniziale, la venatura femminista che aveva pervaso molti articoli di «Noi donne» e l’impostazione polemica che aveva animato l’organizzazione nel suo momento costitutivo, si affievolirono e le posizioni dell’Udi si collocarono via via su binari più tradizionali, a difesa dei ruoli femminili classici – la maternità, la cura della famiglia – e, in ultima sintesi, dello status quo sociale.
La donna doveva sì partecipare alla vita politica ma come cooperatrice dell’uomo e, soprattutto, non doveva perdere la sua “femminilità”: doveva mantenere le sue qualità, non voler assomigliare all’uomo, e doveva preservare la centralità del suo ruolo nella famiglia, salvaguardare la maternità come «sentimento umano più sacro».
Questo orientamento, mutuato dalle direttive dell’Udi nazionale, si mantenne anche negli anni successivi, pur convivendo con spinte più avanzate e innovatrici che qua e là affioravano soprattutto nelle donne più giovani, e che continuavano a rivendicare diritti al lavoro, alla parità salariale e all’emancipazione.
Un’impostazione evidente anche nel taglio diverso che l’Udi di Parma diede al suo nuovo organo di stampa: dal febbraio 1946, infatti, da settimanale esso divenne quindicinale e mutò nome, intitolandosi «In Cammino».
Rispetto alla sobria testata di «Noi donne», che non indulgeva in frivolezze, rubriche d’evasione o amenità grafiche, la copertina di «In Cammino» era più accattivante, con una giovane donna dal passo sicuro e fiducioso verso la ricostruzione del paese, proposta in abiti semplici, conformi alla morale tradizionale, non troppo succinti né mascolinizzati. Nel nuovo periodico cominciarono a comparire suggerimenti e figurini di moda, ricette di cucina, indicazioni di economia domestica e consigli alla buona massaia, rubriche di evasione e romanzi lacrimosi a puntate, sul modello dei tradizionali rotocalchi femminili che il primo «Noi donne» aveva tenacemente sconfessato.
Anche tra le donne dell’Udi, cioè, si ristabilì presto un modello femminile tradizionale: le eroine leggendarie che avevano combattuto sui monti tornavano ora ad essere le buone custodi dei focolari domestici. Nella generale ripresa maschilista del dopoguerra, nel generale clima di sfiducia verso la capacità politica delle donne, anche l’Udi ripiegò su posizioni molto moderate che, anziché incoraggiare le donne alla lotta per un’emancipazione avanzata, si ancoravano a modelli di femminilità tradizionali, subalterni e rispettosi della superiorità maschile.
Del resto, sulle donne che, nonostante tutto, non si rassegnavano a rientrare nel focolare domestico e che si ostinavano a rivendicare un ruolo nella vita pubblica, piovevano accuse, pregiudizi, illazioni non solo circa la loro capacità ma anche riguardo la loro moralità, tacciata spesso di ambiguità. E questo atteggiamento di sfiducia accomunava gli uomini di tutti gli schieramenti politici, da destra a sinistra, dai partiti borghesi a quelli popolari. Tanto che, tra le ragioni che molte donne riconobbero come causa della vita affaticata dell’Udi in quei primi anni di rinnovata libertà, ritornava spesso la denuncia della mancata collaborazione da parte degli uomini, più propensi a lasciare la moglie «alla pentola» piuttosto che incoraggiarla a partecipare alla vita pubblica.
Se tale era il clima, non stupisce che il settore di maggiore attivismo dell’Udi sia stato quello dell’assistenza: alla maternità, all’educazione, all’infanzia, alla carità. Le donne dell’Udi confezionavano pacchi dono per i poveri con denaro, generi alimentari, indumenti; svolgevano assistenza in ospedali, brefotrofi e ricovero di anziani, facilitarono il rientro dei reduci, aprirono e gestirono asili, mense popolari, spacci alimentari. Tornarono cioè a occuparsi di problemi a loro tradizionalmente pertinenti. Al di fuori del settore assistenziale, l’attivismo femminile finì per languire: sul piano del dibattito politico, della battaglia sindacale, del confronto ideologico, della rivendicazione economica la voce delle donne si spense prestissimo.
Già dal 1947-48, l’attività dell’Udi parmense si fece faticosa. Bice Leoni sostituì Anna Menoni alla segreteria ma dovette scontrarsi con un lento e progressivo calo delle iscrizioni.
E ciò nonostante, pur con tutte le difficoltà e le cautele che la mentalità della loro epoca imponeva, queste donne aprirono senza dubbio la strada alla costruzione di una coscienza femminile che si sarebbe eretta in termini collettivi più tardi e sarebbe esplosa dirompente nei successivi anni Settanta.
- Marisa Rodano, Memorie di una che c’era. Una storia dell’Udi, Il Saggiatore, Milano 2010.
- Patrizia Gabrielli, La pace e la mimosa. L’Unione donne italiane e la costruzione politica della memoria (1944-1955), Donzelli, Roma 2005.
- Caterina Liotti, Rosangela Pesenti, Angela Remaggi, Delfina Tromboni, Volevamo cambiare il mondo. Memorie e storie delle donne dell’UDI in Emilia Romagna, Carocci, Roma 2002.
- Maria Michetti, Marisa Ombra, Luciana Viviani (a cura di), I Gruppi di Difesa della Donna, Archivio centrale Udi, Roma 1995.
- Alba Mora, Per una storia dell’associazionismo femminile a Parma. GDD e UDI tra emancipazione e tradizione (1943-1946), in F. Sicuri (a cura di), Comunisti a Parma, Istituto Gramsci Emilia-Romagna e Parma – Biblioteca “U. Balestrazzi”, Parma 1986, pp. 297-348.