Oltre il manicomio
B.go Felino, 36
Dal 1969, sull’onda delle lotte contro la psichiatria istituzionale e per un diverso trattamento degli internati psichiatrici, in questo palazzo venne ospitato il Laboratorio “8 marzo”, dove alcune internate di Colorno poterono dedicarsi ad attività lavorative e incontrare persone esterne all’ospedale psichiatrico.
A Parma, dunque, ben prima della legge 180 del 1978 che avrebbe sancito la definitiva chiusura dei manicomi, medici, infermieri e membri dell’Associazione per la lotta alle malattie mentali si posero il problema di come affrontare un passaggio che consideravano indispensabile: svuotare l’ospedale e reinserire socialmente i malati.
Fino a quel momento, infatti, i ricoverati e le ricoverate erano stati costretti a una vita deprivata delle più semplici possibilità di scelta, ridotti all’incapacità di prendere le decisioni più elementari (come lavarsi o nutrirsi) e indotti a stabilire relazioni interpersonali basate sovente sulla prevaricazione reciproca, in un contesto che li conduceva al degrado di sé.
Un luogo esterno al manicomio dove passare le giornate poteva essere il punto di partenza per riconquistare quella dignità personale che il ricovero aveva annichilito e tentare di restituire ai degenti un posto nella società anche attraverso il lavoro retribuito.
E così, alcune ricoverate del manicomio iniziarono a frequentare regolarmente questo laboratorio, dedicandosi ad attività di sartoria e di stireria, ma soprattutto ricostruendo una quotidianità fuori dall’ambiente alienante dell’ospedale, tessendo legami con la città e le persone che, come loro, vivevano il quartiere.
Obiettivo degli autori era naturalmente far conoscere una realtà posta ai margini della vita “normale” e amplificare la voce della lotta contro l’istituzionalizzazione – il degrado fisico e mentale che pativano i ricoverati nelle istituzioni totali – che, ormai, molti medici stavano portando avanti in diverse città italiane. Intorno a Franco Basaglia e alle sue prime denunce dall’ospedale di Gorizia nei primi anni Sessanta, infatti, era cresciuto un movimento consistente e articolato che, pur differenziandosi al proprio interno, aveva un unico scopo: una società che non lasciasse più indietro nessuno, e nella quale ognuno potesse trovare il proprio spazio.
E perché ciò fosse possibile, questa società avrebbe dovuto liberarsi dai manicomi e da tutte quelle strutture apparentemente create per curare o riabilitare persone devianti o disfunzionali, che in realtà finivano per annullarle completamente, togliendo loro personalità e quindi dignità umana.
Era ormai chiaro a molti che i manicomi non avevano nulla di terapeutico, ma rendevano ricoverati e ricoverate incapaci di essere riammessi nella società “normale”, perché, una volta dentro, essi disimparavano tutte le regole della vita esterna.
Tra tante testimonianze, Matti da slegare mise in scena anche quelle di alcune donne che erano state trasferite in appartamenti “protetti” o frequentavano i laboratori come l’8 marzo, piccole strutture comunitarie nelle quali le «dimesse in esperimento» (dimesse cioè grazie a una figura che si assumeva la responsabilità della loro uscita) potevano ritrovare la gioia della “normalità”.
A Parma, il primo spazio adibito a valorizzare l’autonomia e sollecitare lo spirito d’iniziativa dei ricoverati di Colorno fu, nel 1968, la fattoria di Vigheffio, dove alcuni ex degenti furono trasferiti per occuparsi dei lavori agricoli insieme a operatori e contadini. L’anno successivo, altri ricoverati vennero inseriti nell’Azienda artigiana provinciale che si occupava di manutenzioni meccaniche, nella fattoria di San Secondo e nel laboratorio femminile di borgo Felino. In questi luoghi, le occupazioni erano calibrate sulle effettive possibilità dei pazienti, sul loro livello di regressione o sulle loro capacità di recupero.
A queste realtà lavorative si aggiunsero appartamenti nei quali furono trasferiti piccoli gruppi di internati che, non essendo più sottoposti al costante e stretto rispetto delle regole manicomiali, poterono cominciare a vivere più liberamente.
Nel caso dell’”8 marzo”, laboratorio femminile, le mansioni erano declinate su quelle attività di cura che alle donne erano state insegnate sin dall’infanzia e verso le quali, ancora negli anni Sessanta del Novecento, si presumeva esse fossero naturalmente più portate.
Lavori di stiro, dunque, di rammendo o di confezionamento abiti, che misero le nuove lavoratrici in contatto con chi quei lavori commissionava, facilitando la ripresa di relazioni interpersonali con le persone che vivevano in quartiere. Svestiti i panni delle “matte”, dunque, quelle donne iniziarono a non essere più considerate persone pericolose da tenere a distanza o di cui avere paura.
Riconquistare spazi personali prima negati e ricominciare a prendersi cura di sé fu il primo passo verso l’abbandono del trattamento manicomiale, e un grande balzo verso il rispetto della dignità umana. Anche luoghi come questo aiutarono uomini e donne a uscire dai manicomi, tornando pian piano ad essere tali e ad assumere di nuovo la responsabilità delle proprie azioni e delle proprie scelte.
- AA.VV., Parma dentro la rivolta. Tradizione e radicalità nelle lotte sociali e politiche di una città dell’Emilia Rossa. 1968-1969, Punto rosso, Milano 2000.
- Franca Ongaro Basaglia, Vita e carriera di Mario Tommasini, burocrate proprio scomodo, narrata da lui medesimo, Editori riuniti, Roma 1991.
- Giovanni Braidi, Bruno Fontanesi, Se il barbone beve… Cronache e documenti di una esperienza psichiatrica a Parma, Libreria Feltrinelli, Parma 1975.
- Franco Basaglia (a cura di), Che cos’è la psichiatria?, Amministrazione provinciale di Parma, Parma 1967
- L’ordine della follia, film documentario, regia di Marco Adorni, Margherita Becchetti, Ilaria La Fata, Italia 2008.